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l'opinione''How soccer explains the world'' di voce sommessa
10/07/2006

 

"Come il calcio spiega il mondo: un'improbabile teoria della globalizzazione": questo il titolo autoironico di un saggio veramente originale e intrigante scritto da Franklin Foer, uno dei direttori della rivista New Republic (USA).

 


Per quanto sembri strano l'autore si dichiara tifoso del Barça, anzi "culé": nome questo che richiama il "Barça resistente, frutto di una tradizione democratica, dell'affermazione di un senso d'identità nazionale di fronte a Madrid e di un retrogusto masochista per la [propria] sofferenza".

Questo Barça è per l'autore l'alfiere dei club che rappresentano "il fascino discreto del nazionalismo borghese" in contrapposizione alle squadre "dei nuovi oligarchi, come il Milan di Berlusconi, o a quelle legate al potere politico, come il Real Madrid col suo passato franchista".

La distinzione è sottile ma sostanziale, e sembra perfino fondata. Infatti se da un lato tutte le grandi squadre sono legate a una identità locale, da un altro lato questa paradossalmente si nutre  di ingredienti prevalentemente globali che però possono snaturarla o meno in diversa misura.

Così il Barça ha un allenatore olandese e dei giocatori brasiliani, africani, olandesi, argentini, messicani, svedesi, francesi ma ha ancora un grado di "catalanità" di cui non si trova un equivalente in club come l'Arsenal, il Chelsea o l'Inter.

Ma il paradosso è solo apparente: in un mondo globalizzato le città delle grandi squadre sono sempre più multietniche perché la manodopera qualificata segue i flussi dei mercati globali secondo la divisione nord-sud del pianeta.

Così nel calcio si concentrano, in proporzioni variabili, le due tendenze che animano il mondo: la globalizzazione e l'identità.

Il senso dell'identità non è una questione etnica, ma simbolica: si basa sull'amore per i colori della propria squadra e sulla sua storia: i calciatori e l'allenatore sono l'espressione di quei colori e devono renderne conto ai tifosi, che possiedono e tramandano i valori della loro passione.

Ma il senso di identità legato al calcio sta scomparendo man mano che aumenta il suo valore pubblicitario e televisivo, che attira i capitali e spinge gli speculatori globali a comprare i club. Chi fa affari col calcio sa però che non può limitarsi a dare spettacolo: quello che rende di più è fare affari col senso di identità della gente.

Questo perché "...in un mondo in cui sono poche le bandiere a non trasformarsi in forche... il calcio rimane una passione relativamente innocua, anche se a volte si esprime attraverso la violenza e il razzismo".

E dato che il senso di identità è più forte della spinta al consumo, il calcio è diventato un grande business alimentato da una crescente richiesta globale, che sta salvando la tv dai suoi problemi finanziari facendola in compenso diventare la fonte principale di incassi del calcio stesso.

Così mentre all’origine della globalizzazione del calcio ci sono stati i diritti televisivi, ora è il calcio in quanto spettacolo di massa a condizionare la tv.

Per non mandare il calcio rovina ci vuole un equilibrio fra identità e globalizzazione.

In altre parole, bisogna avere la possibilità di operare sul mercato globale per attirare grandi risorse ed esportare prodotti di qualità in sintonia con la domanda del marketing pubblicitario, mantenendo al tempo stesso il senso di identità dei tifosi con la loro squadra, che dev’essere espressione di una tradizione e di una cultura identitaria.

Ma il calcio come fenomeno legato esclusivamente al senso di identità degrada a hobby amatoriale quando non offre più successi sportivi e si limita a cercare di sopravvivere [il caso del Genoa?]. Allo stesso tempo il calcio come business, slegato dalla sua base sociale, finisce per diluirsi nelle strategie pubblicitarie delle multinazionali, come dimostra il caso di Florentino Pérez, l’ex presidente del Real Madrid, che non ha ancora capito perché i giocatori che vendono più magliette al mondo non sono riusciti a formare una squadra.

L'occupazione di questo spazio dinamico fra identità e globalizzazione è il vero segreto del Barça di oggi, la ragione del suo bel gioco, dei suoi buoni risultati e della stabilità organizzativa e psicologica del suo progetto.

Fin qui la sintesi della sintesi del saggio di Franklin Foer.

La domanda per noi che frequentiamo un sito dal nome impegnativo di "Genoa domani" è “Che dire?”.

Fra una sopravvivenza tormentata, una vicenda traumatica da cui non si riesce a uscire, una presidenza ambiziosa ma ancora debole sui fronti cruciali dell’organizzazione, della comunicazione e delle strategie, il nostro Genoa è ancora in grado di darsi una missione adeguata ai tempi e di giocare la sua partita fra “identità e globalizzazione” con qualche probabilità di successo?

Oppure lo scenario tratteggiato da Foer non è convincente, e al vecchio Grifone resta aperta solo la via della “resistenza al calcio moderno”, da percorrere con la scorta di “monaci-guerrieri” in un mondo così ostile da far loro considerare pregiudizialmente un potenziale nemico ogni viandante che si faccia incontro, anche quando già da lontano è evidente che porta con orgoglio una sciarpa o una bandiera rossoblù?

voce sommessa

 



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