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dalla redazioneStoria del portiere * * I: Due pali per tutti
20/07/2006

 

Vi propongo una piccola avventura, in quattro tappe, alla scoperta del come è stato visto nel tempo quel particolare giocatore che è il portiere e del decorso dell'evoluzione del calcio e delle sue regole in conseguenza della sua apparizione.

 

 


Cominciamo dunque a dare uno sguardo a un mondo lontano, semicoperto dalle nebbie inglesi e da quelle del tempo.

 

Le nebbie inglesi appartengono al mondo concreto; quelle del tempo, non si sa.

Il Tempo anche per gli scienziati è un mistero, c'è persino chi sospetta che sia solo una nostra illusione. Il Tempo è la più potente forza della natura, che tutto cancella. Ma mentre Cronos divora i suoi figli, restano a galla le parole, avanzi del passato. Badiamo allora anche alle parole.

 

Rete!, c'è stata la segnatura!, esclama il nostro cronista, quando la palla entra in porta – anche se in effetti non ha nessuna importanza se essa arriva a toccarla, la rete. In passato, il riferimento usato era alla cosa più antica: "è stata segnata una porta". 

 

Invece in Inghilterra, patria del football, forse può sembrare strano, c'è solo il termine  goal, sia come nome astratto per indicare l'entrata della palla in porta, sia per definire la porta bianca nella sua fisicità. Goal, nel linguaggio comune, significa meta, scopo  (*).

 

Questa ambiguità ha una ragione storica.

 

 

   ...  mentre Cronos

divora i suoi figli,

restano a galla ...                                              

 

 

 

Nel lento emergere verso la sua forma moderna, il foot-ball raggiunse in Inghilterra il concetto di goal molto prima che il concetto di porta trovasse definizione. Quando più tardi arrivò in Italia, oramai era un prodotto bell'e inquadrato, con la sua porta bianca ben in vista, per cui in Italia diciamo porta oppure rete, dando prevalenza all'oggetto fisico; in Inghilterra il primitivo termine goal  rimane, col suo lungo passato.

 

Da quanto tempo gli uomini abbiano giocato a calcio, in modi diversi, non si sa. Conosciamo antiche tracce del gioco dalla Grecia, da Roma, dalla Gallia, da Firenze. Ma sappiamo che fu nell'Inghilterra del XVIII secolo che il foot-ball prese piede nelle campagne inglesi. Erano gare di massa, su terreni enormi, che avvenivano in forme diverse e clamorose; alcune erano disputate tra interi villaggi, attraverso i campi, e i giocatori non si contavano; in altre invece, su dimensioni un po' minori e tra nemmeno un centinaio di giocatori, cominciò ad apparire il goal di raggiungere con la palla una zona limitata o una linea predefinita. Era un gioco da villani, detto senza senso di offesa, basata sulla forza e sulla spinta collettiva. Non sopravvisse ai tempi.

 

Il foot-ball fu ripreso all'inizio del XIX secolo nelle scuole-collegio, che già curavano la pratica dello sport come fattore educativo e come elemento di prestigio per l'istituto. Ciascun College, nell'introdurre questa novità, ne inventava le regole, in proprio, anche in base al campo a disposizione; quindi, su questo campo si giocava in un modo, su quello in un altro, e i modi potevano essere diversissimi e il numero dei giocatori svariato.

 

Quando, magari una volta all'anno, a fine corso, si organizzava una sfida tra due diversi colleges, bisognava affrontare un patteggiamento sulle regole; ma al di là di queste partite che potevano essere occasionalmente organizzate tra due rappresentative di istituti, non esisteva attività di confronto tra i diversi modi di giocare.

 

Al contrario, per altri giochi esisteva una codifica riconosciuta; era così, ad esempio, per il più importante, il Cricket, il gioco nazionale inglese, che già da oltre un secolo era praticato in ambiente aristocratico e al cui confronto il Foot-ball era considerato plebeo. Il Cricket veniva consumato centellinandolo, come il thè; una partita di cricket poteva durare diversi giorni; nelle gare dei colleges si prolungavano per lo più per l'intera giornata, con relativa pausa di pranzo in comune – e giocavano, alla pari con gli studenti, anche gli insegnanti, meraviglioso esempio di come si intendeva la democrazia nelle scuole inglesi di alto bordo. Il nobile gioco del Cricket, trasportato negli Stati Uniti, non avrebbe potuto sopravvivere in quel mondo affannoso e si trasformò nel Base-ball, dove resta confinato nelle sue dimensioni di una corretta consumazione.

 

Nel Cricket, che si gioca tra squadre di 11 giocatori, le porte, piccole porte, esistono. Il Foot-ball, che godeva nei confronti del Cricket del fascino di una fruizione più intensa, più travolgente, aveva la porta? Non necessariamente, e non come la pensiamo oggi. Quanto grande? Estesa in verticale? Estesa in orizzontale? Di che forma? Contrassegnata in quale modo? Ma, comunque fosse conformato questo goal, la pratica era di aggredirlo in massa, a spinta, tipo valanga umana dietro il pallone, e chi si difendeva si serrava a sua volta a falange, facendo diga anche a forza di braccia. L'idea di delegare ad un portiere un compito particolare non era connaturale a quel mondo.

 

Ci vollero molti decenni per arrivare a un orientamento comune circa la costituzione della porta rettangolare come la pensiamo oggi; anche se c'era stato chi aveva pensato di tirare una corda tra due pali verticali, ci volle tempo davvero perché l'idea si generalizzasse, bisognò arrivare alla seconda metà del secolo. Però, una volta stabilita, ecco nata la nostra porta. Le sue misure sono rimaste le stesse fino ad oggi:  8 yarde di larghezza, otto piedi di altezza, in rapporto cioè di 3:1.

 

Il foot-ball era arrivato finalmente a creare il suo primario simbolo ed era pronto per la sua espansione in Europa..

 

Vittorio Riccadonna

 

 

(*) Meta, parola viva nel rugby, proviene dal greco (=al di là) e così si chiamava una  specie di piramide, eretta nell'arena degli anfiteatri romani, che le bighe e le quadrighe dovevano superare e lasciarsi a sinistra durante la corsa. Ecco un brano in cui la parola mantiene significato concreto:

 

Egli si assise all'ombra d'una meta

di grano, e disse: Se non è chi celi

sotterra il seme, non sarà chi mieta.

 

(Pascoli, "Gesù").

 

 



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