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i quaderniIL CASO SARDI – SANTAMARIA (1)
25/11/2015

IL CASO SARDI – SANTAMARIA

ovvero

prove di professionismo nel calcio italiano

 

PREMESSE

L’ “affare Fresia”.

LE ACCUSE.

La parola al prof. Lai della “Doria”

LE DIFESE.

Ciò che dice Vieri Goetzlof

I RIMEDI

Una lettera di C. M. Magni

Una lettera del segretario federale

Professionista perché del Genoa?

Provvedimento elettorale?

Il caso Sardi - Santamaria.

Il processo di Vercelli.

Il Genoa a Canossa

CONSIDERAZIONI FINALI

APPENDICE

 


PREMESSE

Nell’estate del 1913 il Genoa rischia di dover porre fine alla sua ventennale storia. Si trova di fronte ad una situazione drammatica non per i risultati sportivi o la gestione societaria ma per questioni di natura giuridico-sportiva, in quanto pesantemente messo sotto accusa per professionismo.

Era un’epoca storica in cui il professionismo non veniva assolutamente ammesso nelle discipline sportive (solo un anno prima, nel 1912, l’americano Jim Thorpe si era visto squalificare e revocare le medaglie d’oro vinte nel pentathlon e nel decathlon alle Olimpiadi di Stoccolma proprio con questa accusa) e neppure il calcio si sottraeva alla regola. Se in Inghilterra il professionismo era stato considerato lecito sin dal 1885, nel resto d’Europa vigeva la concezione romantica per cui tutte le discipline sportive dovevano servire ad elevare ed arricchire interiormente i praticanti. In realtà, molti calciatori ricevevano sottobanco pagamenti in contanti. In Francia, subito dopo la fine della guerra, la Federazione calcistica inflisse una squalifica di due anni al presidente dell’Olympique Lille, Henri Jooris, colpevole di aver partecipato ad un sistema di retribuzione indiretta a favore di alcuni tesserati del suo club. Era il cosiddetto fenomeno del dilettantismo sporco.[1]

Questa situazione, almeno nel calcio, in Italia si protrarrà sino al 1926, quando la Federazione aprì al professionismo con il famoso documento noto come Carta di Viareggio (2 agosto) che riordinò l’organizzazione del calcio italiano e, di fatto, lo sottomise al regime fascista, imponendo tra l’altro alle società di far sottoscrivere ai calciatori speciali contratti economici su moduli già predisposti.[2]

 

I fatti sono piuttosto noti ma occorre ripercorrerli, per quanto brevemente, almeno negli aspetti più rilevanti.

Sono passati nove anni dall’ultimo titolo e la dirigenza genoana vuole rinverdire i successi dell’epoca pionieristica. Si è iniziato l’anno precedente, con l’assunzione di William Garbutt, chiamato a ricoprire quel ruolo di responsabile dell’organizzazione tecnica sino allora prevalentemente affidata, nel Genoa come in tutte le squadre italiane, a commissioni in cui figuravano ex giocatori di prestigio o dirigenti. In vista del campionato 1913/14, la dirigenza rossoblu si muove anche per acquisire giocatori di grande valore. Si inizia con De Vecchi, che approda al Genoa nella settimana immediatamente successiva all’ultima partita disputata con la maglia del Milan il 4 maggio (1-1 a Vicenza) e giusto in tempo per presentarsi ai suoi nuovi tifosi sette giorni dopo in occasione dell’amichevole di lusso persa 2-4 a Marassi contro il Reading nella prima partita della tournèe che la squadra inglese effettua in Italia su invito di Garbutt, che ne aveva indossato la maglia in patria. Il Genoa, nell’occasione schiera Surdez, Casanova, De Vecchi, Smith, Mitchell, Crocco I, Eastwood, Mac Pherson, Fresia, Maranghi, Walsingham. Oltre a De Vecchi, è dunque presente in formazione anche Fresia, appena convinto a lasciare l’Andrea Doria dietro compenso di 400 lire e autore di entrambe le reti genoane. Ed è una presenza importante perché attorno al suo nome sorgerà una disputa, sempre per questioni legate al presunto status professionistico del giocatore, che vedrà coinvolto il Genoa nelle settimane immediatamente precedenti il processo di Vercelli.

Sempre nello sforzo di potenziamento della squadra, il dirigente rossoblu Geo Davidson convince i giocatori Enrico Sardi ed Aristodemo Santamaria, in forza alla concittadina Andrea Doria, a passare al Genoa dietro compenso di 1500 lire ciascuno, somma all’epoca del tutto ragguardevole. Anche a proposito della cifra pattuita vi sono discordanze, in quanto da alcune fonti la stessa viene ridotta a 1000 ma si preferisce dare credito alla prima indicata per ragioni che più oltre verranno chiarite. Il resto della faccenda è ben noto, in quanto riveste contorni quasi da commedia. Il cassiere dell’istituto bancario in Via S. Lorenzo presso il quale i due giocatori si recano per riscuotere l’assegno, è tifoso della Doria e, accampando motivi procedurali, rinvia al giorno dopo il pagamento procurando nel contempo di informare la dirigenza della Società doriana. La quale, a sua volta, denuncia alla Federazione Calcio il fatto, originando lo scandalo che portò appunto al processo nel quale fu messo in discussione il diritto stesso del Genoa a poter fare ancora parte del consesso calcistico italiano.

Ma occorre fare un passo a ritroso. E prima un altro ancora per ricordare come accuse velate o molto più esplicite di favorire il professionismo fossero già state rivolte contro il Genoa, tanto che quando nel 1912 arrivarono dall’Inghilterra Grant, Eastwood e Walsingham per rafforzare la compagine, vennero assunti da aziende genovesi per evitare loro l’etichetta di professionisti e figurare dunque come dilettanti: Grant e Walsingham  entrambi da ditte carbonifere, rispettivamente la G. Malfettani il primo, la Maresca il secondo, mentre Eastwood dall’agenzia marittima Coe & Clerici.

In una intervista rilasciata da Grant e pubblicata su “Il Calcio” del 4 ottobre 1913, si legge che “Lo si è detto professionista, è stata fatta persino denuncia alla Federazione ma (…) all’Assemblea di Vercelli il vicepresidente della Federazione ha categoricamente affermato che le indagini federali avevano comprovato il perfetto dilettantismo del capitano del Genoa (…)”. [3]

Ciò in virtù anche del fatto che, pur avendo disputato alcuni incontri con la squadra professionista del Wolwich Arsenal, aveva mantenuto lo status di dilettante, come consentito dal regolamento inglese.

Giova peraltro ricordare che la prassi fittizia di far risultare giocatori “assunti” presso aziende di comodo non era prerogativa del solo club genoano. Nel 1923, quando il vercellese Gay notificò alla società di appartenenza che non se la sentiva più di giocare senza essere retribuito e venne perciò messo fuori rosa, fu contattato dal Milan. All’epoca, per poter cambiare squadra, occorreva però risiedere nella città di appartenenza della squadra in cui si voleva ottenere il trasferimento ed ecco che, grazie anche all’interessamento di Ulisse Baruffini, presidente della Lega Nord calcistica e, incidentalmente, pure dirigente del Milan, la Richard Ginori certificò che Gay era dipendente dell’azienda e risiedeva a Milano già da due anni.

E sempre stando a quanto riferisce E. Santi, anche in Francia molte società ricorrevano ai famigerati contratti di occupazione di convenienza in forza dei quali il calciatore veniva assunto come impiegato o come segretario in modo da poterne giustificare lo stipendio ed essere regolarmente schierato in campo.[4]

 




[1]  Emanuele Santi – Il portiere e lo straniero, L’Asino d’oro Roma 2013, pag. 61

 

[2]  Con riferimento alla Società Genoa, è interessante notare come in detta circostanza Giovanni De Prà, chiamato in Consiglio per sottoscrivere appunto il nuovo contratto, rifiutò dichiarando la sua intenzione di “rimanere puro dilettante”.

[3]  La leggenda genoana, vol. 1°, pag. 123

[4]  Emanuele Santi, op. cit., pag. 61

 



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